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Pier Luigi Manieri

The Book of Boba Fett: il ritorno del cacciatore di taglie in sette episodi

Aggiornamento: 7 feb 2022

Lo avevamo lasciato nelle fauci del sarlacc nel pozzo di Carkoon, dove ingloriosamente precipita colpito accidentalmente da Han Solo. Lo ritroviamo al suo interno, nello stomaco. Si rivela però cibo particolarmente indigesto. Riattivando i circuiti della sua armatura ne viene fuori. In tempo per essere depredato dai Java. Trovato più morto che vivo dai predoni Tusken, anche noti come Sabbipodi (Sand people), viene ridotto in schiavitù ma essendo Boba Fett, quello che è, dopo un tentativo di fuga si guadagnerà il loro rispetto salvando la vita a un giovane della tribù. Il contatto con i membri della comunità lo porterà a riflettere sull’indirizzo che deve dare alla sua nuova vita, mettendo a fuoco che è meglio dominare che andare a caccia, ma per farlo deve avere alleati. A questo punto la trama si riallaccia a ciò che si era visto in The Mandolorian, salva la Maestra Assassina Fennec Shand e insieme vanno a recuperare la sua armatura. Assistiamo a questi fatti sotto forma di ricordi-sogno stimolati dall’immersione nella capsula curativa.

I primi cinque episodi di Boba Fett sono in linea con quanto già visto e apprezzato in Solo e poi in The Mandolorian. I personaggi, i contesti le dinamiche s’inseriscono con accurata coerenza, oggettiva credibilità e doveroso rispetto nel tessuto narrativo avviato brillantemente da Guerre Stellari (poi rititolato malinconicamente Una Nuova Speranza) come non sempre è stato fatto, specie in film come Rouge One, e complessivamente nella trilogia messa su da JJ Abrams in complicità con la Disney. Volendo cercare il pelo nell’uovo, forse questo Boba Fett si toglie troppo spesso l’elmo, forse è leggermente appesantito rispetto alla linea snella sfoggiata ne L’Impero colpisce ancora e Ne Il Ritorno dello Jedi o forse l’unica reale asincronia è di tipo anagrafico. Conti alla mano, dovrebbe avere più o meno l’età di Han Solo o essere di poco più grande, qui è invece un uomo maturo che ha il volto di Temuera Morrison, Jango Fett, ma tant’è. Cavilli rispetto alle vistose e dozzinali alterazioni sfoggiate nei suddetti titoli.


Se The Book of Boba Fett è un format qualitativamente apprezzabile, molto del merito va attestato a Jon Fevrau, capace di realizzare un prodotto tv con esiti quasi cinematografici e più ancora, di fare un lavoro personale eppure estremamente sincero. Riscrive ma non stravolge. Operazione, come detto, nel solco di Solo che non a caso fu scritto da Lawrence Kasdan e diretto da Ron Howard, due fedelissimi di George Lucas, il quale sembra aver espresso più di una perplessità sulla trilogia conclusiva. Se Fevrau ha indubbi meriti, non meno sono quelli ascrivibili a Robert Rodriguez, titolare di una regia solida che conferisce alla serie e al suo protagonista, forza e suggestione a vagonate. Il suo lavoro nella serie conferma che il meglio di sé lo dà quando è lontano da Tarantino…

Notevoli i comprimari a cominciare da Fennec Shand interpretata da Ming-Na Wen e Garsa Fwip, una contrurbante Jennifer Beals che gestisce il Santuario, frequentata cantina di Mos Espa.

Nel quinto episodio Boba Fett ha bisogno di forze (muscoli) da mettere in campo e il suo braccio destro va a cercare quanto di meglio ci sia sulla piazza: Din Djarin, il mandoloriano. Il suo reinserimento sarebbe perfetto se non peccasse di tempismo: avviene a meno due episodi dalla conclusione. Come faranno Fevrau e soci a districare le sottotrame? Da un lato c’è Boba Fett che ha i suoi bei problemi nell’imporsi come daimyo, signore del crimine di Tatooine e dall’altra, il suo nuovo rinforzo che però prima di mettersi ai suoi servizi deve recapitare un dono al trovatello, il piccolo Grogu…


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