Ogni leggenda ha un inizio. E anche ogni incubo. Ma gli incubi, in quanto tali, sono solo ciò che sono. Senza attenuanti. Senza assoluzioni. La natura dell’incubo è l’incubo stesso. Joker, ora su Netflix è un film splendido. La parabola dolente e fatale di un disgraziato, Arthur Fleck di professione clown aspirante cabarettista, messa su con toni da tragedia, il sogno americano nel suo lato oscuro, un incubo, dunque. Una parabola superbamente illuminata da una fotografia suggestiva e soprattutto sorretta da un Joaquin Phoenix in stato di grazia che si conferma l’attore più talentuoso e meno impiegato di Hollywood.
Ha molte ragioni per essere apprezzata questa opera scritta e diretta da Todd Philips e se si fosse intitolata Jolly sarebbe stata addirittura perfetta. Il problema è che dalle parti della Dc e della Disney, intesa come Marvel e Lucasfilm, s’insegue da anni un verismo revisionista teso alla coesione della realtà in contesti dove essa ha però poco a fare se non in modo deformato, trasfigurato, metaforico, fino ad ottenere strani ibridi estranei alla natura delle cose con la conseguente riduzione a zero di quegli elementi della narrazione come il mito, l’archetipo, la divisione netta tra bene e male. Qualcosa di intellettualmente non negoziabile perché l’archetipo fin dall’alba dei tempi indica una rotta da seguire e parimenti scolpisce nelle coscienze i punti cardinali dei sentimenti.
L’orrore, in ogni sua rappresentazione è parte dell’esperienza umana. Ne è talmente intrisa che è stato surrogato, metabolizzato nella narrazione di ogni epoca, basti leggere la Teogonia di Esiodo, l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia. Nelle sue impersonificazioni, l’orrore sopravvive e diviene il Babau, l’Uomo nero, l’orco, l’assassino, dunque nella sua funzione l’archetipo dà forma al Male perché lo si possa riconoscere. E il male assoluto è il Joker. Un individuo amorale, lucidamente pazzo. Un assassino a sangue freddo capace d’imprese geniali. La nemesi perfetta dell’eroe per definizione. Batman non ha superpoteri, ciò lo rende per distacco il supereroe più autentico. Ricordiamoci che l’eroe non è quello che vince sempre ma quello che nella vittoria ha una catarsi. È quello che rischia maggiormente. Che mette in gioco tutto sé stesso, vita compresa. L’eroe nel suo calvario deve affrontare un nemico che gli sia speculare, solo in questo modo si avrà una simmetria che corrisponda alla narrazione mitica. Si dirà che la simmetria si ottiene comunque se dell’uno e dell’altro se ne scorgono le fragilità, le ragioni che lo hanno condotto alle sue azioni. Una obiezione di buon senso che però cozza con la materia. Il motivo per il quale Athos abbia intrapreso la carriera nei moschettieri è sostanziale tanto alla struttura del personaggio quanto all’intreccio della storia, per contro, nessuno sa chi sia realmente Diabolik ma questo non ne ridimensiona il fascino, semmai lo esalta. Allo stesso modo, fare del Joker un reietto della società cosa aggiunge? È finzione archetipica, non psicanalisi con sottotesti autoassolventi. L’assolvenza è la nuova frontiera della narrazione dalle intenzioni ipocritamente buoniste e moraliste. Forse Thomas Wayne non è quel filantropo e buon padre la cui uccisione è la fiamma che alimenterà la crociata del Cavaliere Oscuro, forse è invece l’innesco che spigionerà il potenziale omicida di Arthur Fleck, il risultato è che per spiegare (attenuare se non assolvere?) il male, si rischia d’insozzare il bene. Che è quanto si porta avanti attraverso talune pellicole d’intrattenimento mascherate da opere adulte il cui cinismo supera di gran lunga lavori dichiaratamente e vistosamente indifferenti e sprezzanti nei confronti di valori morali e sociali.
Con The Killing Joke, Alan Moore introduce un nuovo tipo di prospettiva nel mondo dei fumetti. Una deriva attraverso la quale il lettore/spettatore viene esortato a riflettere sulle dinamiche di causa ed effetto e sul contesto sociale, ambientale, economico che fanno fi un uomo ciò che è. Mostrando la sua tesi vale a dire che non tutto è proprio come lo si vede. Il fumetto classico, grazie a questo lavoro, dovrebbe divenire adulto, lo diventa o meno enfaticamente snatura sé stesso? Il fumetto-tesi è funzionale a Watchmen che è pensato per quello scopo ma per una sorta di concettuale proprietà transitiva può andare automaticamente bene anche per il Joker? Non è in discussione l’opera di Moore, The Killing Joke vale ogni tavola, quanto la sua lezione e applicazione. Il collegarlo indissolubilmente ad una società malata lo ammanta di realismo ma non ne mortifica il mistero? È così urgente stabilire che il Joker non è nato criminale ma umiliato, mortificato, bullizzato, rifiutato, tradito per gran parte dell’esistenza, non poteva che finire così? Tant’è che di mistero in questo film ce n’è poco. Un penoso inganno. Perpetrato dalla mamma psicopatica ai danni di Arthur Fleck che scopre di essere stato adottato. Tutto qui. Oppure no, il film manca completamente di sense of wonder, che nella narrazione è la sostanza che alimenta i sogni, assistiamo invece all’eclissi della stupefazione e della sorpresa sopraffatti dalla miseria e dal degrado. La stessa estetica del caos si delinea senza particolari sussulti. Dopo V per vendetta, Il Cavaliere Oscuro- Il ritorno e il fumetto Major Grom e il Medico della peste, l’ennesima insurrezione degli oppressi contro la prepotenza del potere è un cliché che si palesa stancamente fuori tempo massimo. Ma poi si è così sicuri di avergli reso giustizia? Il re del crimine messo in scena come un complessato favorisce senza dubbio la compassione ma tanto pietismo non risulta persino un torto?
Al netto di tutte le analogie e differenze, fedeltà e tradimenti, Joker si colloca ambiziosamente ma a buon diritto tra Re per una notte e Taxi driver, di entrambi ne sublima magistralmente l’essenza mescolando assieme Ruper Pupkin e Travis Bickle, ne coglie le angolazioni più marcate come la desolazione che avviluppa i protagonisti, l’ammirazione-ossessione per lo show man idolatrato (Robert De Niro si specchia col suo passato), la furia omicida che si scatena all’ennesima frustrazione. Pentole compresse che possono avere un unico sfogo.
Joaquin Phoenix riesce nel consueto miracolo di restituire plasticamente ciò che avviene nelle zone d’ombra della psiche e della coscienza, un lavoro certosino ed encomiabile che lo ha strameritatamente condotto all’Oscar. Il film ne ha vinto un altro per la colonna sonora ha inoltre rastrellato premi in tutto il pianeta, ognuno più meritato dell’altro.
Ma non chiamatelo Joker.
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