Il senso del tempo perde significato all’interno di quella centrifuga che è la società scandita dai social, per cui se da un lato taluni eventi si cristallizzano in un eterno presente e se ne parla come se fossero fatti recenti anche se hanno ammucchiato anni su anni, dall’altra si tende a lasciarsi alle spalle la stretta attualità, ingolfata fino all’asfissia in flame e guerriglie dialettiche scandite da like, unitamente al corollario di insulti e teorie ancorché bizzarre che per chi le formula hanno la gravità di assiomi rivelati.
Basti guardare Sanremo. Se oggi chiedessimo il nome del vincitore, con ogni probabilità ne uscirebbe un dato mortifero, un verdetto di assoluta irrilevanza rimarcato dalla rinuncia all’Eurovisioni ma se Olly (si chiama così. Come il compare di Banji) è difficilmente ricordabile di suo, la memoria collettiva dell’intera kermesse rappresenta emblematicamente come la società viva una sorta di “Effetto Dory”, (dal nome del pesce femmina di Nemo), sia cioè affetta da una generalizzata memoria a breve termine. Ora è il momento di Donald Trump, dell’Ucraina (tornata in prima pagina dopo un anno di trafiletti), di FolleMente, di James Bond - Amazon de Il Gattopardo, di quanto Papa Essiedu ci azzecchi nei panni di Severus Piton, della moria delle sale cinematografiche romane (leggete il nostro articolo in merito), ciò che appartiene a due settimane fa, è remoto, superato, cancellato.

La rutilante vita social è questa cari lettori e non possiamo farci nulla. E invece questo Sanremo osservato con la giusta distanza, offre una gran quantità di valide ragioni per essere ancora discusso: la prima è che si può sopravvivere ad Amadeus.
Ci avevano terrorizzato. Dopo di lui il diluvio. Le cavallette. La peste. E poi la fuga degli sponsor. E la fuga degli artisti. E il deserto degli spettatori. E lo share da numeri relativi. Poi sotto la direzione di Carlo Conti va in onda e sbanca. Senza se e senza ma. Mette su una edizione che guarda ai giovani senza far sentire gli adulti degli estranei, attempatissimi ospiti indesiderati alla liturgia della canzone. C’è spazio per tutti davanti e dento lo schermo, perché Conti ostruisce una edizione solida e ricca combinando mostri sacri e stelle del ventunesimo secolo.
La seconda buona ragione per parlarne consiste nella formula magica: Conti riporta la musica al centro della scena. Concede l’uso dell’auto Tune ma cercando di disciplinarne la funzione. Elimina ogni genere di scemenza, carnevalata woke e parimenti fa fuori i comizi e le intemerate alla Rula Jebreal (per tutto ciò ci sono il Concerto del Primo Maggio, la Festa dell’Unità, il Gay Pride, i film di Nanni Moretti, i monologhi di Luca Bizarri e Paola Cortellesi, le sviolinate di Fabio Fazio) e pensate, si concentra sulle canzoni. Incredibile, no?
Il terzo argomento meritevole di analisi approfondita è il ritorno del buon gusto e della classe. In attesa che da favolose crisalidi mutino in farfalle da classifica, decidendosi a diventare cantanti, non si può non rimanere abbagliati dallo sfoggio di grazia ed eleganza esibito da Clara, Elodie e Rose Villain che si aggiungono al magnetismo sofisticato di Serena Brancale. Zero provocazioni gratuite e splendida presenza scenica, questo sembra essere il canone del nuovo corso, un canone che non sessualizza, lo chiariamo all’istante a coloro che stanno già con l’indice puntato ma che restituisce decoro e bellezza, tanto alle donne quanto agli uomini che hanno abbandonato lustrini e guêpière per indossare il completo da cerimonia e lo smoking.
Ma uscendo da concetti come lo share, il costume e le note di colore, è il terzo l’aspetto più interessante: Sanremo certifica quel postmodernismo citazionista che dal design al cinema, è il canone estetico del decennio. E a Sanremo, di postmodernismo se ne è visto e ascoltato parecchio a cominciare da L’albero delle noci, l’intimista canzone di Brunori Sas. Bella, bellissima, toccante ma… è Rimmel di Francesco De Gregori!
Siamo chiaramente lontanissimi dal plagio anche perché il plagio comprende tutta una serie di condizioni che qui non si evidenziano, però a essere cattivelli possiamo parlare di creatività omologata e circoscritta, oppure di stratificazione delle idee, se vogliamo invece perdonarne la vicinanza. Insomma, ci piace pensare che se ci si è nutriti di certe idee, certe partiture, determinate melodie per tutta una esistenza, qualcosa inevitabilmente resta dentro per poi prendere forma ritrasformato. È poco? È tanto? Lo lasciamo stabilire a voi; questo processo di metabolizzazione-immedesimazione è ciò che accade per altri versi col vincitore morale di Sanremo, quel Lucio Corsi che si muove agilmente tra Alberto Camerini, Ziggy Stardust e il glam rock, capace di conquistare con un sound esportabile e una presenza scenica piacevole ma che alla fine della fiera conclude il suo pezzo con “sono solo luce”. Diciamo che non siamo di fronte alla scintillante scrittura di Renato Zero a cui è stato accostato.
Comunque, Corsi sa il fatto suo e auguriamogli che gli venga dato, il suo senza costruirci sopra strambi teoremi della percezione. Per dire, nella euforia di quei giorni in molti insistono a tratteggiarlo come un ragazzino ma ha 32 anni. A quell’età Camerini aveva quasi tirato i remi in barca, Renato Zero era una star di prima grandezza e Bowie… era David Bowie. Stella polare dei Talking Heads, Joy Division, Japan e Duran Duran (di cui abbiamo parlato nell’articolo su Sanremo). Genio assoluto la cui statura e dimensione è tale da influenzare prima il glam rock, poi l’Art, il punk e infine il new romantic e la new wave.
A questo punto ci sarebbe da aggiungere che Brunori ha quasi 48 anni, in altri tempi sarebbe un cantautore “vecchio”, eppure sembra ancora un emergente, categoria per cui nel 2012 vinse la relativa Targa al Musica da Bere. Nel 2012 aveva 35 anni. Se a quasi cinquant’anni il tuo miglior brano è una fotocopia seppure d’autore di un'altra canzone, è il caso di fare una riflessione sulla qualità media in circolazione. E qui ci viene in aiuto il finalmente bravo Tony Effe. Macho quanto basta per porsi come antidoto alla “cultura” woke, fa il verso a Franco Califano, eletto padre putativo e infila un pezzo che sarebbe piaciuto a Gabriella Ferri. Anche lui cede alla tentazione malandrina e butta lì quel “E non fare la stupida stasera” tirato via da Roma nun fa' la stupida stasera così come lo stesso titolo "Damme'na mano".
Se tre indizi fanno una prova, possiamo certificare che nel complesso si guardi indietro piuttosto che tentare strade inesplorate. Il passato non sarà il migliore dei mondi ma è comunque un rassicurante approdo sicuro. Questa tendenza, ancorché dalle controverse sfaccettature a cominciare dal fatto che ci restituisce una società postcreativa, altamente specializzata nella riedizione e ricostruzione delle idee ma che ha abdicato alla ricerca, pone però sul piatto della bilancia almeno un non trascurabile elemento positivo, questo postmodernismo di maniera ha in effetti dalla sua, una certa capacità di fare divulgazione.
È immaginabile che l’appassionato di Brunori S.a.s., Tony Effe o Lucio Corsi, possa provare l’intrigante tentazione di approfondire Franco Califano, Gabriella Ferri, Francesco De Gregori, Renato Zero, Alberto Camerini e David Bowie…
Ps: nei giorni di Sanremo è venuto a mancare Giorgio Cocilovo, superbo chitarrista che in carriera ha affiancato Enrico Ruggeri, Garbo, Maria Bazar, Mina, Eros Ramazzotti, Ivan Graziani e proprio Renato Zero, nonché tra gli artefici di quel Tarzan Boy che sbancò anche negli USA. La sua scomparsa, a causa della vorticosa settimana sanremese è passata sotto traccia, quindi vogliamo chiudere questa riflessione sul festival ma più ancora, sulla musica ricordando e salutando uno dei suoi protagonisti.
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