Tralasciamo le polemiche legate ai fischietti ambo i lati. Tralasciamole perché sono antipatiche, strumentali, e perché, soprattutto, “Non bisogna mai mettersi nelle condizioni di doversi lamentare dell'arbitro”, come diceva il grande coach di pallacanestro Aza Nikolic.
Cosa resta, allora? Resta la qualificazione del Milan alla semifinale di Champions League, risultato che in casa rossonera non arrivava dal 2007. Erano i tempi di Ancelotti, Inzaghi, Kakà, Pirlo, Seedorf, Nesta, Gattuso, Maldini, e più in generale di quella squadra che, nella stagione ad Atene vendicò la rimonta subita ad Istanbul due anni prima (e già per il significato geo-culturale in sé ciò nasconde una significativa poesia) superando 2-0 il Liverpool.
Il periodo è stato poi decisamente più complicato. L'addio a Re Carlo, la confusione societaria data dalle vicende politiche di Berlusconi, i quadriennio allegriano chiuso con uno strappo e le seguenti guide tecniche cambiate a ripetizione, la misteriosa questione cinese e l'arrivo di Elliott sono stati tutti passaggi di quella che non è sbagliato definire una vera e propria Via Crucis.
Ora giunge una vera e propria boccata d'aria fresca, una semifinale insperata, ma non per questo meno meritata. Luciano Spalletti nella conferenza stampa dopo la gara di ritorno ha recriminato per questo o quell'episodio, ma seguendo il summenzionato principio di Aza Nikolic è stata la sua squadra a mettersi nelle condizioni di avere da eccepire sull'operato dei direttori di gara.
L'approccio del Napoli alla doppia sfida è stato infatti assolutamente lacunoso in termini di grinta, lucidità quando contava, attenzione ai dettagli. Forti di mesi di soli elogi per la qualità del gioco espresso, i partenopei sin dalla gara di andata sono scesi in campo con sufficienza, quasi fossero sicuri che l'avversario si sarebbe semplicemente fatto da parte da sé senza colpo ferire.
La mancanza di cattiveria agonistica nelle prime azioni di Milan-Napoli già doveva essere un campanello d'allarme per i tifosi azzurri, che invece hanno approcciato in modo snobistico un avversario che nel mare europeo sguazza come fosse la piscina di casa. Non paghi, i supporter del Napoli hanno pensato che fosse una scelta astuta andare a disturbare gli atleti avversari fuori dall'albergo la notte prima della gara di ritorno.
Come è capitato in diversi sport che hanno riscontrato episodi simili, ciò ha invece prodotto una motivazione extra per i rossoneri, e per i contropiedi laser con cui nel capoluogo campano hanno risposto alla manovra invece avvolgente dei padroni di casa. I quali allo stadio “Maradona” hanno sì messo in campo maggiore aggressività, specie dal lato destro con Di Lorenzo, ma non abbastanza da piegare la resistenza di un Milan che aveva tutta l'intenzione di fare le barricate, lanciando poi lungo per Rafael Leao o Olivier Giroud.
In conferenza stampa lo stesso mister toscano ha poi dato una spiegazione senza sconti del perché, nonostante la superiorità netta della sua squadra in campo, alla fine siano passati gli avversari: “Probabilmente vedere intorno gente che ha fatto finali su finali, che ha vinto, ha dato loro convinzione. Questa è una competizione che li riguarda da vicino per la storia che hanno”. Ed eccolo lì, il “DNA europeo” evocato dalla vox populi e non di rado oggetto di pernacchie sui social, ma puntualmente presentatosi a quello che, dopo troppi anni di traversie, era l'appuntamento che non è errato definire come il più importante della storia recentissima del Milan.
Un appuntamento colto mettendo in campo una concentrazione ferina e uno spirito indomito che ricordano tanto quelli tipici di uno che per sua stessa ammissione sanguinava rossonero, ossia il grande e compianto Kobe Bryant. Affinità spirituale, probabilmente, perché la sua “Mamba mentality”, la sua applicazione nel momento che conta, gli occhi della tigre di fronte a qualsiasi avversario, sembrano essere tutte parenti strette del summenzionato “DNA europeo”.
Certo, la Mamba Mentality è di per sé un concetto più largo: è ossessione per il miglioramento, abnegazione per arrivare al successo, approccio martellante e quotidiano alla propria professione per avere l'opportunità di poter puntare al massimo, attenzione ai dettagli per non farsi mai cogliere impreparati. Questa estrema focalizzazione, tuttavia, ha pur sempre come fine ultimo la vittoria, che può passare solo da una concentrazione si estrinseca in una determinazione agonistica pronta a non lasciare nulla agli avversari.
È qui che “Mamba mentality” di Kobe e “DNA europeo” del Milan si toccano, come le dita di Adamo e Dio nel “Giudizio di Michelangelo” della Cappella Sistina. Tanto che viene da chiedersi se non si possa parlare di vera e propria “Milan mentality”, nel momento in cui in casa rossonera i giocatori sentono le conosciute note della Champions League.
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