Un esercizio che andrebbe fatto da tutti è girare per bancarelle di libri usati, o antichi. Non è difficile. In ogni città, borgo, paese, o quartiere se ne può trovare uno, o più di uno. Spesso nei fine settimana, ma anche tutti i giorni. Basta sapere dove cercare. E in un certo senso è la condizione di oggi, l’epoca della “ridondanza dei contenuti”. Le notizie, le storie, il sapere è tutto la fuori. Il problema è trovarlo, individuarlo. Ma più di tutti il problema è volerlo cercare.
Mercatini, bancarelle dicevamo. Che sono i mercatini di libri usati? Cosa sono queste bancarelle, dove libri ormai dispersi riaffiorano? Sono macchine del tempo. Capsule da un passato lontano, che riportano alla luce quel che in passato fu ritenuto importante, al punto da dedicare energia e moneta per stamparlo e quindi sperare di diffonderlo tra le moltitudini. Ma sono anche la memoria dell’effimero, delle mode del momento, dei fenomeni mediatici che brillano per un nanosecondo nel mercato, e poi svaniscono. Qualcuno si ricorda Berlinguer e il professore? Fu un caso letterario e politico nei primi anni ’70. E non da poco. Romanzo di fantapolitica che ipotizzava la salita al potere del PCI dopo che i boss democristiani si sterminavano a vicenda, in una lotta per il potere che richiamava gli scontri tra clan mafiosi, suscitò una polemica ferocissima con inchieste per scoprire l’autore, e accuse di delegittimare il governo all’epoca in carica. A paragone le polemiche di oggi sono sì e no litigi tra chierichetti. L’insegnamento che ne traiamo? I libri vanno e vengono, e quello che era incandescente in un momento preciso, oggi è dimenticato, e giace in mezzo ad altri libri.
Eppure questi templi del ricordo aiutano anche a capire altro. Non solo la caducità della fama effimera legata al momento, ma anche la cura che l’editoria impiegava per realizzare l’oggetto libro. E se quindi la fama e il successo sono passeggeri, e il pamphlet feroce del 1968 sulla contestazione studentesca oggi è dimenticato da tutti anche se andrebbe studiato come reperto di un tempo lontano, è innegabile che l’oggetto libro in passato fosse tenuto in considerazione ben maggiore di quanto lo sia oggi.
Oggi i libri sono fatti per essere pubblicati, consumati, e dimenticati. Prima non era così. O meglio, poteva essere così per la narrativa (geniale fu l’intuizione Mondadori nei primi anni ’60 degli Oscar, tascabili a prezzo popolare e con confezione spartana) ma i testi non legati alle mode, o all’intrattenimento erano pensati per durare. Quando le Edizioni Paoline negli anni ’60 decide di lanciare una collana di saggi teologici rivolta non solo agli accademici o ai chierici ma in teoria a tutti i fedeli, dà vita a una collana di libri formato tascabile ma con copertina di cartoncino rigido telata, e titolo impresso a rilievo con lettere dorate. Qual è il messaggio? Che è un libro fatto per durare. La dignità del contenuto viene manifestata dalla dignità della confezione, il tutto per rispettare la dignità del lettore. I libri erano oggetti dalla vita lunga, che restavano nella vita di chi li comprava. Dovevano essere pensati per durare, non per sbriciolarsi o sfaldarsi. Vogliamo tornare ancora più indietro? Ai primi del ‘900 non era raro che le tipografie realizzassero vere e proprie opere d’arte, con copertine in pelle sbalzata o incisa. Pensiamo alle guide del Touring Club, la collana Rossa delle regioni d’Italia, o quella Grigia telata del CAI (Club Alpino Italiano) dedicato alla catena delle Alpi. Erano libri fatti per durare, non per essere buttati via ogni anno e ricomprati in una girandola di consumi che tutto tritura e tutto fagocita.
Perché ci riflettiamo? Perché il degrado di una società si rivela anche in questi piccoli dettagli. Niente più viene realizzato pensando che duri nel tempo. Niente più viene pensato secondo strategie a lungo termine. Una società che non realizza più libri che durino nel tempo, è capace di pensare a politiche che vadano al di là del prossimo sondaggio settimanale? Si potrebbe dire che siano cose senza legame tra loro, ma non è così. Sono due indizi dello stesso problema, due sintomi dello stesso malanno, che emergono in campi diversi ma che in realtà rivelano la stessa logica perversa, e cioè che solo il presente conta, e che l’idea di durata è noiosa. Infatti se una cosa dura, significa che per fintanto che dura non ha senso sostituirla con altro, e quindi chi ha la cosa che dura non ha bisogno di comprarne un’altra. Pensiamoci: macchine sofisticatissime, ormai gestite da software raffinatissimi, che però diventano superati in tempi brevissimi, e che quindi hanno bisogno di aggiornamenti o di essere rimpiazzate da nuovi modelli appena usciti dalla fabbrica. La durata è un concetto che inevitabilmente va contro una società basata sul consumo. Questo ovviamente non toglie dall’equazione la scelta personale. Il singolo decide se entrare o meno nel gioco del consumo. Un’altra scelta è sempre possibile, o anche la scelta di giocare secondo le regole del mercato, sperando di essere più furbi del croupier. La libera scelta del singolo non può essere esclusa, ma richiede sicuramente una forza di volontà e una chiarezza di idee non facili da raggiungere. La risposta è sempre consapevolezza. Sapere cosa si fa, perché lo si fa, e se possibile le possibili conseguenze del cosa si fa, delle scelte che si fanno. La pressione sociale del Pensiero unico nel 2024 è molto più sofisticata. Se prima si imponeva oggi si propone, si consiglia, si dice che una brava persona farebbe così. È ‘epoca del nudge, non del force, e resistere alla compressione sociale è sempre difficile. Possibile, ma difficile.
Ma torniamo alla ridondanza. Pensiamo alla musica. Tutto è disponibile, tutto è ascoltabile, tutto è consumabile, e tutto è uguale. Tutto è disponibile, ma nessuno aiuta a capire cosa vale. E questo è un altro punto di riflessione. Se io ti riverso addosso migliaia di contenuti ogni giorno, e te hai pur sempre (in quanto essere vivente, che segue le leggi naturali) solo 24 ore al giorno ogni giorno, in realtà io sto dicendo che non mi interessa cosa leggi o ascolti. La sola cosa che mi interessa è occupare il tuo tempo il più possibile, con i contenuti che ti metto a disposizione, apparentemente gratis ma in realtà prendendomi il tuo tempo. Io ti do canzoni, tv, film, social, video, e anche libri (pochi ma anche loro), e te mi dai il tuo tempo. Sembra un affare, e in realtà lo è. Ma non per me. Dicevamo degrado della cultura. Perché? Perché se la cultura era ciò che formava l’identità di una società, e se questo era possibile perchè la cultura si costituiva nel tempo e durava nel tempo, lo strumento cardine che esprimeva in modo concreto questa durata erano i libri. I libri che restavano, che erano realizzati per durare, con copertine solide, rilegature robuste, e che erano pensati anche per essere belli, per trasmettere messaggi di bellezza, di piacere al tatto, alla vista, essere cioè oltre che libri, anche oggetti culturali, espressione di una volontà di permanenza. I libri che si trasmettevano di generazione in generazione. Il patrimonio culturale, che una generazione affidava alla successiva. Dov’è tutto questo?
Ridondanza alluvionale dei contenuti, obsolescenza voluta dei prodotti editoriali, perdita dell’idea di durata, perdita soprattutto della memoria sociale (per cui ogni mattina qualcuno reinventa il teorema di Pitagora, e lo spaccia come l’evento epocale dell’anno).
Ormai non siamo nemmeno più al degrado. Siamo al cabaret.
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