Ci risiamo! È il momento del quesito apparentemente senza risposta che periodicamente torna sul tavolo, rimbalzando di volta in volta dalle convention ai profili dei social network ma che fondamentalmente resta un esercizio dialettico, anche entusiasmante ma sostanzialmente sterile perché la disamina si risolve nella ormai inevitabile sentenza “A loro non piace perché sono esterofili.”.
Del resto, per Fruttero e Lucentini “Un disco volante non può atterrare a Lucca”. Questa frase è scolpita sulla lapide delle buone intenzioni fino a divenire nel corso dei decenni, la scusa utile e risolutiva per arginare qualsivoglia tentativo di andare a fondo alla questione. Non sempre e non solo per interesse, il più delle volte, per pigrizia mentale. Ebbene, nell’ora in cui scriviamo, la fiamma della discussione ha ripreso vigore. Sui profili facebook degli autori italici, prendono forma analisi, tesi, dibattiti, per arrivare sostanzialmente a dire che… i lettori sono esterofili.
In questo spazio cercheremo di argomentare una serie di spunti di riflessione che provino ad andare un po’ oltre quello che è giunto a essere a tutti gli effetti un assioma. Attenzione, non per smentirlo, perché ha, almeno entro una certa misura, una sua verità, ma per comprenderlo e capire se è davvero tutta colpa del lettore e solo sua. Ma soprattutto per chiarire che è un errore rintracciare in una non meglio chiarita refrattarietà del grande pubblico, le ragioni delle vendite che non decollano, tenendo però conto del fatto che lo stesso pubblico che snobba i nostri, legge gli altri.
Può essere utile cominciare a chiarire che le cause dell’assenza di un mercato editoriale vasto non sono recenti, le radici di questo deficit affondano piuttosto in quei decenni, specie gli anni ‘70 in cui qualsiasi fenomeno è osservato sotto una lente d’ingrandimento di tipo ideologico. La questione è complessa e abbraccia non solo il costume e le arti ma la politica stessa, che vede l’allora PCI entrare con veemenza tanto nei cineclub quanto negli tenei e nelle case editrici e dettare la Linea. Una delle traiettorie da inseguire è quella di fiaccare l’idea stessa di identità e di spirito d’appartenenza. Quel PC ci vede come satellite dell’URSS, scongiurare a ogni costo la formazione di un senso dell’immaginifico nostrano, è imperativo per disinnescare un qualsiasi rigurgito nazionalista.
Chiunque abbia un’infarinatura circa la storia della letteratura e del costume, o chiunque abbia più di 50 anni, conosce perfettamente il tema. In questo clima di censura, la fantascienza sociologica ottiene un lasciapassare. La fantascienza sociologica è considerata “alta” e colta e soprattutto è percepita come strumento per veicolare teorie e posizioni non capitaliste e non identitarie (e non di rado, fraintesa, come nel caso di 1984, di Orwell). Diametralmente opposta è la considerazione per quella avventurosa, bollata con diverse definizioni che coincidono nell’essere non particolarmente lusinghiere. La fs avventurosa è "roba per bambini", come se per leggere Dick o Bradbury occorra una laurea, è "di destra". È di destra significa che è per ritardati, retrogradi perché con la sua esplorazione e conquista dello spazio, l’avventura è reazionaria e guerrafondaia. E nel dubbio che non sia abbastanza, è bigotta con tutti quei suoi eroi indomiti, minacce da sventare e le principesse da salvare. Il simbolo di tutto ciò è la dileggiatissima space opera, identificata come male assoluto, tant’è che annichilita dalla martellante pioggia di disapprovazione esce mestamente di scena. A cospetto del dogmatico ostracismo non si salva nessuno, Ugo Malaguti, indispensabile figura pionieristica, scrittore e divulgatore dalla curiosità insaziabile, è sovente alla sbarra con l’accusa di essere un “fiancheggiatore”.
La censura ovviamente non impedisce agli autori stranieri di entrare nel mercato italiano e sedimentare nell’immaginario (abbiamo letto tutti, Van Vogt e la sua Crociera nell'infinito, la trilogia della Fondazione di Asimov, le avventure spaziali di Capitan Futuro per opera di Hamilton) ma ha arrestato la nascita di una cultura della letteratura italiana di fantascienza, tant’è che ancora oggi ciò che viene dato alle stampe può essere definito in larga misura, "letteratura di riporto" vale a dire, estremamente condizionata dagli autori e suggestioni estere. Il che non sarebbe neppure male se tali suggestioni non fossero assimilate pedissequamente ma fossero piuttosto decodificate in canoni locali.
A questo punto il tema può essere esteso tanto ai fumetti quanto al cinema. E come sanno quelli che lo studiano senza boicottarlo, è soprattutto il cinema ad avere un sussulto grazie all’avvento di Guerre Stellari.
Anzi, potremmo osare di dire che l’ultimo afflato si debba proprio ai film che si incanalano dietro alla rivoluzione di George Lucas. Si tratta purtroppo di opere per lo più sincere ma di scarso valore qualitativo consacrate all’ estetica di riporto ma che comunque testimoniano una inestinguibile voglia di evasione che va di pari passo a una effervescenza estranea ai seriosi cineclub. Vale la pena citare Scontri stellari oltre la terza dimensione, di Luigi Cozzi, il tentativo più riuscito e di maggior successo che ha per protagonisti Caroline Munro, David Hasselhoff e Christopher Plummer, nonché le musiche di John Barry. Space opera forse casareccia e sul filo della imitazione ma capace di rastrellare diciotto milioni di dollari in giro per il mondo.
E veniamo al pomo della discordia: il pregiudizio del lettore italico.
Il pregiudizio da parte del pubblico esiste, o meglio, esisteva ed è o era alimentato da diverse condizioni, la prima attiene al cavalcare la tigre esterofila tanto in letteratura, dove abbondano gli scrittori sotto pseudonimo straniero, si pensi a John Bree, pseudonimo di Gianfranco Briatore o a Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (il grande Stefano Di Marino, di gran lunga il migliore autore pulp italiano assieme ad Altieri, si celava dietro a una decina di pseudonimi esotici ma nel suo caso erano necessari per districarsi nella torrenziale produzione di scritti), quanto al cinema, vedasi i bondiani cinematografici che tennero banco per tutti gli anni’60 o gli epigoni di Guerre Stellari o di 1997: Fuga da New York. Opere di genere a volte anche gradevoli ma che non hanno creato una stratificazione culturale. In fondo lo spettatore non conserva nella memoria il doppio di Alien (attenzione però: Alien 2, che fu realizzato in uno scantinato non solo l’ha fatta franca, ma è divenuto una sorta di trash cult e per giunta costrinse i produttori del futuro franchise al plurale Aliens perché non depositarono il marchio Alien) o la brutta copia di Mad Max ma appunto, gli originali.
La seconda riguarda la scelta ideologica, consapevole e determinata a non generare una identità narrativa. Questi due fattori fanno sì che il Gianni Mnemonico meneghino che sia su carta o video, non faccia breccia. Ma sarà vero? Lo scrivente, nel suo microcosmo da trecento lettori, è riuscito a rendere credibili, supereroi italiani, nostrani agenti segreti del futuro, gladiatori romani superstiti a pandemie su scala globale e vampiri centenari, neanche a dirlo, italiani. Personaggi e storie applauditi e tenuti a battesimo da un’autorità e peso massimo della letteratura di genere come il compianto Alan D. Altieri. Posto che cotanta impresa meritoria non è un fatto né isolato né esclusivo (si guardi all’esperienza di gruppo messa in piedi da Giuseppe Cozzolino in cui figurano penne interessanti come Alessandro Bottero, Carlomanno Adinolfi, Sergio Duma, Vito Tripi, Umberto Sisia e Luigi Ercolani), la regola aurea dovrebbe essere quella di non scimmiottare ma di ricreare uno spazio diegetico in cui le condizioni ambientali, sociali, politiche, rappresentate siano aderenti al contesto e lo sostengano. Se l’ambiente è credibile, lo è anche il personaggio e viceversa.
La terza è l’atteggiamento di chi scrive. La scrittura è senza alcun dubbio una passione. Anzi, è una droga. Se vogliamo è pure una condizione necessaria ma a volte non sufficiente. L’atteggiamento da nerd che riversa entusiastico tutto il materiale che affolla nella sua testa, frutto di decenni di letture, visione di film, cartoni animati e serie tv, è genuino ma cosa sposta? Che valore aggiunge se tutto ciò non è riplasmato in qualcosa di oggettivamente non letto? Non è sorretto da uno stile non scolastico? La dinamica da nerd è sovrapponibile a quella dell’autore ideologicamente militante, il nerd come il militante parla sostanzialmente a sé stesso, scrive per sé stesso, e come diretta conseguenza, vende a sé stesso nonché ai parenti stretti e agli amici che fanno affettuosamente uno spazio nella libreria in salotto.
Se ingrandissimo il perimetro allargandolo a ogni genere dell’evasione e recuperassimo Poliziotto sprint, scopriremmo che è anticipatore di molti degli stilemi di Point break e Fast’n Furious. Il problema, perciò, non è né in una scarsa creatività generalizzata e neppure nella mancanza di un pubblico che infatti lo premiò, così come tributò consenso un po’ tutto il filone poliziesco/action anni ’70 che vanta titoli oggettivamente pregevoli come a Il giustiziere sfida la città. Posti tutti questi aspetti favorevoli, siamo piuttosto convinti che il Duro a morire partenopeo non sarebbe bocciato senza chance, siamo invece portati a credere che il successo dipenda da molteplici fattori a cominciare dalla qualità per arrivare alla promozione. Pensiamo a quel felice caso cinematografico di Lo chiamavano Jeeg Robot che ha funzionato come un orologio svizzero. Alla fine della fiera è un problema e un limite di chi fa cosa. Se il film di Gabriele Mainetti non fosse rimasto un episodio quasi unico del cinema contemporaneo ma sulla sua scia si fossero prodotti un numero significativo di film, oggi parleremmo di sf cinematografica italiana come una realtà consolidata.
Ma come abbiamo detto, il problema non è di oggi: ovvero, la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni. Il paradigma è tutto nell’invettiva di Silverio Corvisieri, deputato del PDUP emembro della Commissione di Vigilanza RAI. È il gennaio’79 quando il compagno Corvisieri scrive un’interpellanza parlamentare e simultaneamente un articolo su “Repubblica” nel quale scatena tutto il furore ideologico su Atlas Ufo Robot, allora programma di punta della rete nazionale “Goldrake deve sempre affrontare qualche nemico spaziale estremamente malvagio. Si celebra dai teleschermi, con molta efficacia spettacolare, l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso”. In quale modo un genitore può fronteggiare con i poveri mezzi delle sue parole la furia di Goldrake?”
Eh, sì! Goldrake ha e aveva la pretesa di voler dare rappresentazione di archetipi narrativi e umani come la lotta fra bene e male e l’affermazione degli stessi come categorie oggettive. E di archetipo in archetipo, Goldrake osa trattare nei 25 minuti di durata, ambiti dell’esperienza umana come il perseguire la difesa della pace e il bisogno di sicurezza (che è un bene primario codificato da Maslov, non la suggestione bellicosa di un reazionario). Goldrake ha l’ardire di mettere in scena l’eroismo con atti che includono il sacrificio personale. Nell’anime di Go Nagai non manca un afflato poetico, non mancano sentimenti come la compassione ma tutto ciò Corvisieri non lo coglie. Spiegando le sue ragioni a Rapporto Confidenziale, alcuni decenni dopo, dice “… E con la violenza dell’eroe, del supereroe, del superuomo (in questo caso il super-robot). Insomma, una figura che non chiamava gli altri a collaborare, a decidere insieme. Quindi era antidemocratico e violentissimo.”. Capite? Combatte da solo non perché sia l’unico in grado di farlo ma perché è antidemocratico. Cioè fascista. Perché poi il nocciolo è sempre quello.
Nonostante a difesa di Goldrake scenda in campo anche Gianni Rodari, sotto il peso delle polemiche innescate da Corvisieri che trova in Nilde Iotti un grande alleato, la RAI decide di escludere dal palinsesto i Mecha giapponesi, gli ultimi a essere trasmessi sono Mazinga Z a partire dal 21 gennaio 1980 interrotto durante la messa in onda e Astro Robot a partire dal primo settembre 1980. Una decisione scellerata che lascia campo libero ai concorrenti privati, che infilano uno dopo l’altro Jeeg, Grande Mazinga, Daitarn 3, Gundam, Daltanious, Gordian, Gotriniton. Ma pensate se non fosse esistito il mucchio selvaggio, ossia le giovani emittenti private locali, che perdita per almeno una generazione.
Proprio la fantascienza nipponica è l’esempio più vistoso per chiarie il limite della nostra. Autori come Leiji Matsumoto, Monkey Punch, Yoshiyuki Tomino, Go Nagai, Tatsuo Yoshida, Buronson, Shin'ichirō Watanabe solo per citarne alcuni tra i più rappresentativi, sposano nel corso delle loro carriere una estetica improntata sulla contaminazione. Essi, infatti, dosando sapientemente gli elementi, riescono nella formidabile costruzione di un impianto in cui l’identità giapponese difesa in modo ferreo, si combina con suggestioni d’importazione. Può tornare utile pensare alle atmosfere bondiane di Daitarn 3, alla cinquecento di Lupin III nonché alla declinazione nippo hard boiled di Jigen, per non parlare del rimando vistoso ad Arsenio Lupin, ed è evidente che Ken il Guerriero sia da Silvester Stallone a Bruce Lee, un crocevia di suggestioni, passando per Mad Max, ciò non di meno, in nessun modo si può sostenere che questi personaggi, trame, ambientazioni, atmosfere, non trasudino l’essenza della storia, cultura, società e visione del mondo, giapponese. Un giovane può identificarsi in Goemon il samurai che attraversa altero e incurante il 20 e il 21esimo secolo o in Tekkaman, che pure ha un’armatura medievale europea ma lo spirito è quello di un samurai autenticamente nipponico. Tutto ciò, il nostro cinema a eccezione di casi come il poliziottesco e la nostra letteratura, a eccezione del giallo, non lo restituiscono. E c’è da capirlo, perché un Corvisieri in fondo può sempre venir fuori. Ma se è così, se uno dei timori è la censura o se una delle condizioni necessarie per entrare in partita è quella di essere allineati, sostenere che la colpa sia del lettore, esterofilo e provinciale non è una banalizzazione? Un nascondere la polvere sotto il tappeto?
Da ultimo, accusare il lettore di disaffezione quando si registra un’assoluta assenza di aspettative rispetto all’autore italiano tanto che fino a una manciata d’anni fa, la stessa Urania si teneva alla larga non è qualcosa che non ha senso?
Trenta anni fa domandammo a Decio Canzio perché neppure un colosso come Bonelli non puntasse su un eroe italiano ambientato in Italia e lui ci rispose ché il lettore italiano non lo avrebbe trovato credibile. Il che è difficilmente confutabile se si pensa che case editrici di recente fondazione come la Bugs comics punta sul dylandoghiano Samuel Stern, bibliotecario di Edimburgo che comunica coi demoni ma non su Samuele Stella (Stern in tedesco. Senza contare che Stern è un cognome ebraico. Come anche Samuel), bibliotecario dell’Urbe. Il che avrebbe tutto sommato identico fascino se non maggiore considerando la presenza della Santa Sede. Stern è solo l’ultimo di un più che trentennale elenco che fluttuando tra fantasy, horror e sf, sforna personaggi dai nomi esotici come Lazarus Leed, Gordon Link, John Doe, Samuel Sand che agiscono a New York, Los Angeles, un po’ ovunque purché non sia Firenze. O Lucca. L’unico acuto che si sottrae a questa routine narrativamente esterofila è quello di Michelangelo La Neve col suo ESP, gioiellino ambientato orgogliosamente a Roma.
Insomma, un po’ per quel complesso d’inferiorità che ci vuole costantemente non rappresentativi, un po’ per il goloso miraggio prospettato dal personaggio esotico, un po’ perché il personaggio straniero è un parafulmine, ancora oggi non si schioda dalla formula magica. Ma se in passato ha dato Tex, Diabolik e Corto Maltese, oggi non sforna più nulla che lasci il segno e comunque non più di due mesi fa la solita La Repubblica ci fa dono di un’altra perla: Tex è maschilista e razzista. Ecco qua, non una storia nuovissima ma sempre attuale. Da “Un ministero per Goldrake” a Tex sono trascorsi 45 anni, almeno una generazione di politici e intellettuali ma le posizioni non cambiano. Nel frattempo, è cambiata anche la geografia della narrazione. Le idee non sono più unicamente made in USA, inglesi e francesi ma anche spagnole, tedesche, belga e coreane! Il risultato è il medesimo, appassionati spettatori che amano eroi asiatici ma che non si riconoscono in quelli italiani perché non ce ne sono.
C’è dell’altro? Sì, perché al peggio non c’è mai fine. E il peggio è la deriva Solarpunk! Luogo narrativo in cui la distopia è confusa per utopia. Già, a rendere irrimediabilmente indigesta la fantascienza autoctona ci si è messo pure il politicamente corretto con tutte le sue possibili declinazioni, che sono tante: woke, cancel culture, fluid e blackwashing (ma non siamo all’umorismo involontario di fare nero un personaggio come Elyan, cavaliere della Tavola Rotonda detto il Bianco, ignorando da ignoranti che tra i cavalieri si conta effettivamente il saraceno Palamede). Anche l’ambiente, tema caro a qualsiasi latitudine narrativa, diventa grottesco, così come concetti chiave quali: femminismo, organicismo anticapitalismo, antipatriarcale, antispecista. E qui veniamo al nocciolo. La confusione che domina la scena statunitense viene assimilata “di riporto” dallo scrittore militante che vede in essa una stella polare e la sposa senza filtri, fino a cortocircuiti logici. Sul sito Solarpunk Italia si legge "Parte prima – Cos’è il solarpunk".
Il solarpunk è un genere letterario ed è un’estetica. È anche un movimento: immagina un futuro migliore e costruisce strategie operative per renderlo possibile. Nato negli anni ’10 di questo secolo, il solarpunk si fa interprete di sentimenti e istanze che chiedono un progresso collettivo, organico, equo, ecologico, inclusivo. Fin dai suoi inizi esprime una visione politica complessa e aperta, ma chiara: inclusiva, femminista, ecologista, utopista, anarchica, organicista. Anticapitalista, antirazzista, antipatriarcale, antispecista.” Soffermiamoci su un punto per tutti, antipatriarcale. In che modo si può essere inclusivi e simultaneamente in opposizione a chi si riconosce nella struttura patriarcale? Sarebbe come dire che qui sono ammessi tutti ma solo se hanno i capelli biondi. In pratica ognuno è libero di pensarla come penso io. Su istanze come l’antirazzismo non può esserci nulla da eccepire ma in che modo la narrazione viene piegata all’inclusività? Con gli asterischi? La sensazione è che si sia perso di vista il senso e il fine della scrittura, detto ciò, ognuno è libero si concepire la sua storia come meglio ritiene ma mentre Bonelli si pose realmente il tema di mostrare gli indiani fuori dallo stereotipo di Hollywood senza per questo strumentalizzarne la narrazione, qui sembra che si proceda per senso di marcia opposto.
Ingrediente e Pretesto. Magari qualcuno farà fatica a distinguere le differenze ma ci sono. Il primo è al servizio della storia, il secondo la piega la storia, la confina in un recinto narrativo in cui la trama è un ostaggio in funzione del messaggio. Non è detto che sia sempre un male se il risultato è I Promessi Sposi, grande metafora sulla Provvidenza, sull’amore e sul diritto all’indipendenza di ciascuna nazione. Molto male se è una narrazione strumentale che assolve a mistificazioni assortite con pretesa di utopia sociale che vanno da un mondo senza sessi a un mondo monocolore, trionfo del mondialismo più sfrenato. Ma allora lo scrittore deve chiedersi cosa vuole leggere il pubblico? No. Lo scrittore deve seguire la sua vena. Se il prodotto è valido e la casa editrice saprà promuoverlo con mestiere e mezzi, si delinea la sua fetta di mercato. Il problema è che spesso le stesse case editrici che pure investono su grafica e stampa, trascurano o ignorano il senso della comunicazione. A questo aggiungiamo l’amara realtà per la quale quasi nessun autore di genere percepisce guadagni dalla propria opera, specie se appartenente a case editrici piccole, Il che tende ad abbassare inesorabilmente la soglia della qualità giacché le case editrici che non pagano ma devono uscire, si accontentano di autori anche scarsi ma che facciano massa.
Lo scrittore deve interrogare sé stesso circa la bontà della sua sinossi e le intenzioni che sottendono al romanzo? Non può essere altrimenti. La sinossi deve essere qualcosa che travalichi il pacere del romanziere, il quale non scrive per sé stesso ma per ammaliare il lettore. Lo scrittore che funziona non è quello che appare più intelligente ma quello che è più interessante. Quanto alle intenzioni, devono essere sincere. La letteratura, anche quando è di propaganda, è sincera se chiarisce di esserlo (di propaganda). Prendiamo in prestito La Fuga di Logan, Nolan ebbe l’illuminazione durante le contestazioni giovanili del’68. In quel clima incandescente che inquadrava i vertici politici e militari nel centro del mirino, si forma per estensione, un sentimento di diffidenza nei confronti dei “grandi” . Guardarsi da quelli che hanno più di 20 anni è il motto del momento. Quel motto sarà la fonte per pensare a una società di soli giovani ma la suggestione che ne esce fuori è tutto fuorché utopistica. Nolan attinge dall’attualità ma poi va per conto suo inseguendo la sua ispirazione. E questo è ciò che fa la fantascienza, prefigura, trasfigura, sublima la realtà ma non si schiaccia su di essa. E neppure la compiace.
A questo punto proviamo a fissare dei punti.
La scena fantascientifica italiana non funziona perché:
1) Come abbiamo visto, la fantascienza, specie quella avventurosa è vittima di un pregiudizio negativo, tanto che alcuni autori si vergognano perfino di essere riconosciuti come scrittori di fantascienza. Scrivono storie che a tutti gli effetti sono aderenti al genere, anche troppo, ma ne rifiutano la definizione, percependo sé stessi come “autori alti” e anelando un riconoscimento che ne nobiliti gli sforzi.
2) Per lo più si scopiazza a destra e a manca. Gli autori sono troppo spesso fan che hanno possibilità di pubblicare. Ma chi li legge? Perché un romanzo-clone, in cui la maggior parte delle idee sono state già formulate, dovrebbe avere successo?
3) Dopo decenni di soffocamento ideologico del genere, per decollare ora la fantascienza italiana deve avere tempo, spazio e investimenti.
Per chiarezza, le firme buone, ottime e anche eccellenti come Alessio Brugnoli, Davide Del Popolo Riolo, Paolo Di Orazio, Dario Tonani, capaci di dare forma a robusti impianti e finanche universi narrativi, non mancano, mancano però una coscienza, un sentire comune, una capacità di trasfigurare, un profondo senso della meraviglia che nella Nazione di Dante, Ariosto, Tasso, Casanova, Salgari, Calvino, Pratt, Buzzati, Landolfi, Marinetti, Kolosimo, Altieri, dà da pensare.
Mentre chiudiamo l’articolo, si diffonde la notizia che Franco Forte ha annunciato che sulla collana Urania non troveranno più spazio gli autori italiani, se non per la sola pubblicazione del vincitore del Premio Urania per romanzi e quello dei racconti, in un unico volume.
La ragione è il fatturato che langue. Cominciamo col dire che il più delle volte quando un prodotto non funziona dipende da tre fattori, o è fatto male o è sbagliata la comunicazione o non c’è richiesta. Forte, forse, ha sbagliato nel puntare su autori che evidentemente non hanno pagato in termini di unità-copie vendute e se fosse, va accettato. Solo chi fa, sbaglia ma sbaglia sicuramente se ritiene esaurita l’esperienza italiana, segando le gambe ad autori che potrebbero portare un valore aggiunto ma che probabilmente non conosce neppure.
Siamo certi che le ragioni siano da decenni sempre le stesse? Esterofilia scomposta e pregiudizio? O forse le ragioni per arginare la cronica debolezza sono: meno spazio all’ideologia e più al pathos, avventura, archetipi. Maggiore capacità di comunicare il prodotto, revisione delle strategie promozionali andando a portare la fantascienza nelle scuole per creare un lettore nuovo, moderno e vergine, visto che quello di età avanzata è stato soffocato dai Corvisieri. E chissà cosa dirà, ora che è un vecchio, quando a breve sulla RAI Goldrake farà ritorno col riavvio, Grendizer U.
Per chiarezza, quando diciamo che sbaglia, esprimiamo unicamente una opinione, Franco Forte curatore che ha un nome che è una città teutonica, dispone nel ruolo che riveste, di tutta la facoltà di scegliere e di essere in errore come ritiene più giusto.
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