Diabolik è un ladro leggendario. È un asso dei travestimenti ma anche un maestro nell’ordire piani diabolici per mettere a segno colpi sensazionali. Lo schema è collaudato: si rapisce un soggetto che possa fare da cavallo di Troia, se ne prende il posto e si effettua il furto. Tutto è pianificato in ogni dettaglio tranne l’intervento del fato. Che in questo caso mette sulla sua strada una banda di rapinatori.
Diabolik chi sei? Il terzo episodio della saga, liberamente ispirato dal numero 107 della serie delle sorelle Giussani, cambia nuovamente prospettiva e punta l’obiettivo sulla donna del Re del Terrore, la quale emerge a tutti gli effetti come vera protagonista.
Miriam Leone è Eva Kant. Nel senso che è proprio Eva mascherata da Miriam. Sono indistinguibili. I Manetti sono abilissimi nel farne un’icona intramontabile e non una power girl a uso e consumo del temporaneo me too.
Eva è un’eroina (anti), bellissima, coraggiosa, determinata e passionale che sarebbe piaciuta a Dumas, e in effetti il film strizza l’occhio a un gran numero di stilemi narrativi mescolando insieme il feuilleton, da Montecristo a Rocambole e Fantomas, col poliziottesco anni’70, che è appunto il contesto storico in cui avviene l’azione. E qui ci inoltriamo nel citazionismo con una Barbara Bouchet che ci conduce a Fernando Di Leo che la diresse in classici noir e del poliziesco all’italiana (o poliziottesco come vennero chiamati con sprezzo da certa stampa che li accusava di essere fascisti e reazionari) come Milano calibro 9 e Diamanti sporchi di sangue ma che simultaneamente ha un titolo e un cognome che suonano in modo troppo familiare per essere casuale, è la contessa Wiendemar (Serbelloni-Mazzanti-Vien dal Mare). Sul fronte dell’immagine, l’incipit è Argento puro, le ampie inquadrature in cui la donna è precariamente sola (Carolina Crescentini), gli androni che improvvisamente appaiono come antri minacciosi, la stessa maschera indossata da Eva col volto orrendamente sfigurato, sono il risultato di un esercizio di estetica postmodernista in piena regola ma il tutto assume una sua precisa identità, combinandosi come in un flusso magmatico, alla suggestione metatestuale delle tavole che prendono vita nella pellicola, il che è in modo incontrovertibile uno degli aspetti qualificanti di un film imperfetto ma godibile.
Diabolik chi sei? procede per alti e bassi su una sceneggiatura dalle grandi potenzialità firmata dai Manetti Bros assieme al compianto Michelangelo La Neve ma che emerge solo a tratti. Nonostante il film sia definito da un’eleganza formale esaltata da languidi piani sequenza e un montaggio accorto, lo sviluppo della trama risulta a tratti ingolfato in alcune ridondanze di troppo e in una colonna sonora un po’ invadente però aperta spettacolarmente da Alan Sorrenti.
L’intreccio narrativo vive di strappi e impennate, contiamo almeno in due i momenti suggestivi: il racconto della genesi di Diabolik in un evocativo bianco e nero (scelta estetica che qui ha più senso che altrove…) e l’assalto di Eva e Altea per liberare Diabolik e Ginko. Molto spettacolare è pure l’inseguimento attraverso il parco, occasione per ammirare uno dei trucchi prodigiosi dell’eroe in nero.
A questo punto urge sottolineare come il film sia un’anomalia o un paradosso, perché al netto di quella ridondanza che qua e là si affaccia mediante un indugiare eccessivo su alcuni passaggi, il film è così ben congeniato e pieno di cose che le due ore e quattro minuti di durata fluiscono via senza che lo spettatore se ne accorga.
La fotografia si conferma come grande punto di forza del cinema manettiano. Esalta i toni del film, assecondandone i cambi di passo e la gran quantità di colpi di scena, ma come detto, si assiste a un girotondo di ottime idee, persino eccellenti e simultaneamente a dozzinali leggerezze tanto che non si comprende quanto siano vezzo e quanto frivolezza. Per dire, non si comprende la ragione per cui Palmer (Piergiorgio Bellocchio) stazioni lungamente davanti al cancello completamente allo scoperto col rischio di farsi beccare.
Ad avere la peggio in questo vorticoso valzer di maschere che attraversa l’intero film, è proprio il protagonista, Giacomo Gianniotti, compresso tra Max Gazzè e i diversi personaggi a cui Diabolik si sostituisce, appare in un numero insignificante di scene. Non solo, quelle che lo riguardano sono deboli, mal girate, formalmente didascaliche, valga a titolo esemplificativo , quella in cui si sbarazza di uno dei banditi. L’attore risulta mal impiegato, circoscritto in primi piani che se esaltano la somiglianza, alla lunga generano una tediosa ripetitività. Inoltre non si spiega la perdurante assenza di azione, il pugnale di Diabolik, che sta a lui come il batarang sta a Batman e le ragnatele a Spider-Man, non balena neppure una volta se non nel battesimo di sangue che bagna la genesi e ascesa del futuro ladro inafferrabile. Ma anche questa sequenza meritava maggior gloria.
Il lato trash, tanto caro ai fratelli cineasti, è tutto nei dialetti: Altea sembra la sorella dell’Ispettore Clouseau e i banditi parlano lombardo-piemontese, il che stona con la posizione geografica della fittizia Clerville che dovrebbe essere situata in Costa Azzurra.
Nel computo di ciò che funziona e di ciò che avrebbe potuto essere fatto meglio, il saldo è ampiamente positivo, ai Manetti si può rimproverare di non aver curato particolarmente l’action e di essere incappati in certe trascuratezze che fanno tanto B-movie, ma è indubbio che abbiano trattato la materia affettuosamente, con talento, perizia e rispetto portando a casa un terzo capitolo più che godibile. I Manetti sanno sognare e sanno far sognare.
Note positive in ordine sparso:
Mastrandrea infila la terza interpretazione da attore della sua carriera. Le altre due sono Ginko e Ginko.
10 e lode ai costumi, scenografie, fotografia e al già citato Alan Sorrenti.
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