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Roberto Iacopini

Afghanistan addio, l'Italia pensi al Mediterraneo

Aggiornamento: 8 mag 2021

Quando l’11 settembre 2021 l’ultimo soldato americano lascerà Kabul, la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan sarà durata 20 anni, sarà costata due trilioni di dollari ed avrà fallito l’obiettivo che si era prefissa. L’Afghanistan non solo non ne esce normalizzato, ma i talebani, che sono gli interlocutori dei negoziati per la transizione, torneranno a guidarlo secondo i loro precetti religiosi radicali.

Sconfitti sul campo, i talebani sono i vincitori politici del conflitto asimmetrico e, ancora una volta, l’Afghanistan si conferma “cimitero degli imperi”. Una fine ingloriosa che fa tramontare definitivamente la stagione dell’impegno USA ad usare la forza delle proprie armi per “esportare la democrazia”, in società tribali che non ne conoscono il significato e ne rifiutano il senso.


La decisione di chiudere l’ormai inutile guerra afghana risale a Trump, ma Biden l’ha fatta propria, considerandone i costi e i benefici. Nel suo agire politico, il presidente democratico ha fatto proprie alcune delle issue del predecessore, a cominciare dall’aver identificato nella Cina il nuovo e più temibile nemico globale degli Stati Uniti. Quello destinato ad assorbire ogni risorsa militare.

Il cambio di paradigma è evidente. Gli Stati Uniti non sono più il gendarme del mondo, o perlomeno non lo sono più in quegli scenari dove non sono chiari gli interessi da tutelare. Pur senza dirlo apertamente, la vecchia filosofia dell’ingerenza umanitaria è stata sacrificata al concetto di America first e ciò restituisce un mondo frammentato in cui acquisiscono di ruolo e di peso le potenze regionali.


Tra le nazioni che ambiscono ad esercitare questo ruolo c’è la Turchia che ospiterà a Istanbul i colloqui tra le fazioni coinvolte nel conflitto afghano e su questo terreno potrebbe gestire il fondamentale ruolo di mediatore. La Turchia può esercitare questa funzione, poiché da paese aderente alla NATO è presente con proprie truppe in Afghanistan, ma anche da appartenente alla umma islamica.

Come sosteneva Mao Tze Tung in un suo abusato pensiero: “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente”. La nuova stagione che si va ad aprire può consentire all’Italia di acquisire nuove responsabilità e un maggiore ruolo in ambito mediterraneo e continentale. In questo quadro, Draghi potrà approfittare anche dell’imminente uscita di scena di Angela Merkel.


La ritrovata voglia di politica estera che ha per focus la ricostruzione della Libia e le contemporanee “offese” che Draghi ha rivolto ad Erdogan, sembrano andare in questa direzione. Il presidente del Consiglio sta avocando a se la gestione della politica estera, lasciando al ministro degli Affari Esteri Di Maio l’increscioso ardire di spacciare per un successo, il ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan.

Partecipando alla missione ISAF, l’Italia ha adempiuto al suo dovere e lo proseguito anche quando questa è diventata una missione militare. Abbiamo messo sul terreno gli scarponi dei nostri soldati che hanno raggiunto anche le 4mila unità e sul campo abbiamo lasciato 53 caduti. Un tributo di vite che vanno onorate, anche se sono il risultato di una operazione di cui già dopo un anno non erano più chiari gli obiettivi.


Il bilancio della missione italiana in Afghanistan costituisce l’impegno militare più rilevante dell’Italia dopo la Seconda guerra mondiale, ma non è positivo e deve servire da riflessione ad ogni altro possibile futuro impegno delle nostre forze armate, poiché sempre e dovunque, la forza militare è la proiezione di un disegno politico, senza il quale è solo un costo senza benefici.

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